Perché il “Mai Una Gioia” ci fa solo male

Quando avevo 13 anni ero una ragazzina dalla lamentela facile, sempre pronta a lagnarsi di qualunque cosa, convinta di essere terribilmente sfortunata: vedevo tutto nero e anche in compagnia le mie lamentele erano costanti, tanto che, ovviamente, ero allegramente presa di mira dai chi mi stava vicino. Un giorno mia madre mi ha regalato un libro di self help, uno di quelli che vanno tanto di moda negli Stati Uniti. Titolo ad hoc: Io non mi lamento. In allegato, un braccialetto viola di silicone, che avrei dovuto portare su un polso per 28 giorni consecutivi, senza mai spostarlo: questo sarebbe avvenuto non appena mi fossi lamentata, e in quel caso avrei dovuto cambiare polso. Inutile dire che tutti si sono concentrati sul farmi notare, ogni volta che aprivo bocca per piagnucolare, che dovevo ricominciare la mia sfida. Il braccialetto l’ho perso e non sono mai riuscita a completarla, ma almeno ho imparato qualcosa.

Oggi dire “lamentela” rende più l’idea di fastidio, quindi si è sostituito questo termine con il ben più pratico e trendy “Mai una gioia”, declinato in varianti più o meno volgari. Nonostante il mio passato da tredicenne lagnosa, non mi è mai venuto in mente di mettermi in bocca una simile espressione, che sinceramente all’inizio trovavo simpatica, e ora, che campeggia sui post nei social network quotidianamente, non sopporto più. Forse perché a un certo punto mi è stato fatto notare quanto fossi pesante, forse perché adesso, rileggendo qualche vecchia conversazione, mi rendo conto di quanto fossi effettivamente fastidiosa, ma non riesco a tollerare questo sguazzare (più o meno) allegramente nella lagna gratuita.

Io per prima trovo che uno sfogo libero sia molto soddisfacente nei momenti d’ansia, ma per quale ragione ogni giorno centinaia di persone si sentono spinte a condividere post sulla loro vita, sulle loro “sfortune” quotidiane, condite da quello che loro credono un simpatico “Mai una gioia”? Vi svelo un segreto: non siete simpatici, non fate ridere, anzi a lungo andare sembrate solo dei babbei che non sanno fare niente di meglio che tenere uno smartphone in mano e credersi ironici anziché alzarsi in piedi e prendere in mano la propria vita. Eventi come il caffé ustionante, un treno perso, una calza smagliata possono avere una portata decisiva sulla nostra giornata: tutto dipende da come li guardiamo. Possiamo innervosirci sul momento e poi, com’è giusto che sia, concentrarci su altro, e a fine giornata quel particolare sarà già dimenticato. Oppure possiamo immusonirci e diventare malmostosi, pronti a sparare acidità fintamente simpatica sul nostro profilo Facebook, finendo per avvelenarci la giornata.

E a lungo andare, finendo per allontanare chi ci sta vicino. Anche se in alcune occasioni il nervosismo e il pessimismo hanno ancora la meglio, almeno evito di frustarmi da sola lamentandomi in giro della mia condizione. Anche se a volte è difficile, cerco di lasciar correre quanto potrebbe solo portare pesantezza nella mia mente. E se ce l’ho fatta io, ragazzina piagnucolona, può farcela davvero chiunque.

La ragazza di Brooklyn: da Parigi a New York in 400 pagine

Dal 29 luglio 2011 mi affligge una tremenda nostalgia, che ho tentato di calmare in ogni modo, con foto, canzoni, film e libri. E’ successo, quindi, che andassi al cinema a vedere qualunque film avesse nel trailer uno skyline a me riconoscibile in pochi fotogrammi, e che leggessi ogni libro esposto in libreria che mi saltasse all’occhio con due magiche parole: New York. Il romanzo di cui vi propongo la recensione, La ragazza di Brooklyn, l’ho scelto proprio in questo modo.

Raphaël è uno scrittore parigino di successo, che cresce il figlio Théo senza la madre; sta per sposarsi con Anna, un giovane medico che l’ha conquistato in breve tempo. Una sera, mentre la coppia sta trascorrendo un breve periodo di vacanza nel sud della Francia, Anna rivela a Raphaël il suo segreto più recondito, e il fidanzato, inorridito, scappa. Nonostante torni subito sui suoi passi, al suo ritorno Anna è scomparsa, non risponde al cellulare, è irrintracciabile; lo scrittore torna così a Parigi, e insieme all’amico Marc Caradec, ex poliziotto, inizia la sua indagine privata per ritrovare la donna che ama, prima nella capitale francese, poi nella campagna tra Alsazia e Lorena, e infine dall’altra parte dell’Oceano, nella brillante New York.

La ragazza di Brooklyn è l’ultimo romanzo di Guillaume Musso, ma non il suo unico libro da me letto: lo stesso motivo che me lo ha fatto scegliere mi ha fatto comprare anche Central Park, e non ho potuto non fare un confronto tra i due volumi. Musso ha una scrittura estremamente coinvolgente, riesce a non farmi staccare gli occhi dalle pagine e a macinarne sempre di più pur di arrivare alla soluzione del mistero, sempre ben congegnato. La descrizione dell’ambiente è minuziosa ma non pesante, sembra davvero di trovarsi nei luoghi che l’autore ha scelto per il suo thriller.

Conoscendo già Musso come autore ho imparato a far caso a ogni dettaglio, anche al più piccolo, perché con lui il colpo di scena è continuo: non appena vi sembra di aver capito qualcosa in più sul mistero che caratterizza il libro, ecco che succede qualcosa che rimescola tutti i nostri pensieri di lettori, e rende ancora più difficile trovare una traccia a cui appigliarsi (anche se in realtà, questa volta, i miei sospetti su un particolare personaggio si sono ritrovati fondati). Anche in questo romanzo si mescolano trhiller e storie d’amore, si va oltre i pregiudizi che possono caratterizzare i personaggi non appena li conosciamo, si mescolano tante storie diverse e poi, magicamente, Musso ci fa arrivare alla soluzione. E’ sempre stata lì, sotto il nostro naso, ma il talento di un bravo scrittore sta proprio nel riuscire a mantenere i propri segreti. Unica nota negativa: a mio parere, questa volta il colpevole è stato piazzato in un punto poco raggiungibile dall’immaginario del lettore, una persona che davvero difficilmente si poteva prendere in considerazione.

La città in vasca con QC Terme Milano

Finalmente, dopo aver posticipato per mesi, sono riuscita a sfruttare il meraviglioso buono che mi consentiva un ingresso giornaliero in una struttura QC Terme: ho scelto di passare la mia giornata relax a QC Terme Milano, e non immaginavo che mi sarebbe piaciuta così tanto!

Non sono un’abituale frequentatrice di centri benesseri o centri termali, quindi ero molto curiosa su ciò che mi avrebbe atteso una volta superate le mura spagnole: in un edificio storico restaurato a Porta Romana, infatti, QC Terme ha scelto di stabilire la sua sede milanese, prestando attenzione a ogni dettaglio e curando l’atmosfera in modo da renderla il più rilassante possibile. Sembra proprio di stare in un giardino segreto, e per un giorno o qualche ora dedicare del tempo solo a se stessi! Ho apprezzato tantissimo la piccola area dell’aperitivo, piena di lanterne e piante, in cui è possibile fare uno spuntino o reidratarsi dopo la sauna (ce ne sono diverse in questo impianto, ciascuna con un’aromaterapia e con una temperatura differente) o il bagno di vapore. La più caratteristica resta ovviamente quella collocata nel giardino, all’interno di un vecchio tram, riadattato e sfruttando in modo intelligente le panche già presenti.

Ovviamente non potevo non fare un salto nelle numerose vasche idromassaggio presenti nella struttura, ciascuna con acqua riscaldata: la mia preferita è la vasca più grande collocata all’esterno, in cui sono presenti diversi punti idromassaggio, che permettono di godersi il giardino anche quando fuori si gela, com’è stato il mio caso. Del resto io non riesco a non associare le terme all’inverno, e mi piacerebbe molto provarle quando fuori nevica. Anche nel seminterrato ci sono diverse vasche, tutte illuminate dalla luce soffusa di tante candele…purtroppo non profumate, perché in quel caso avrebbero dovuto trascinarmi via!

Mi sono piaciute molto anche tutte le piccole attenzioni proposte per la cura del corpo: nelle sale interne sono presenti tante vasche con del bicarbonato, per uno scrub semplice ma efficace, e negli spogliatoi una vasta scelta di detergenti e lozioni per il corpo e i capelli! Il personale poi è davvero gentile e disponibile. Insomma, avrete capito che per me è stata un’esperienza assolutamente positiva: io ve la consiglio per un regalo un po’ particolare, oppure per passare una serata (sì, in alcuni giorni l’ingresso è consentito anche dopo le 18) diversa dal solito.

52 List Project: cos’è e come funziona

Il 2017 è iniziato già da una settimana, però il primo vero appuntamento con il nuovo anno sarà domani, il primo lunedì dopo le feste. Immancabili i buoni propositi, i desideri: ce la faremo davvero a raggiungere qualcuno dei nostri obiettivi in questo anno, ad armarci di coraggio e ricordare che provare non costa nulla? Forse mettere nero su bianco i propri pensieri è un buon punto di partenza.

La scorsa estate ho acquistato questo libriccino, pensando che lo avrei regalato: da amante della cancelleria, però, sono stata conquistata dal suo design shabby e dal messaggio (più o meno nascosto) che racchiude: così, nei giorni scorsi, ho iniziato il mio 52 List Project. Di che cosa si tratta? Nel volume sono elencate 52 liste, una per ogni settimana dell’anno, ciascuna contraddistinta da un tema, che si possono completare. Due pagine, ogni settimana, in un anno intero. E’ solo un’attività rilassante oppure può avere un altro scopo?

La curatrice del progetto, tale Moorea Seal, nelle prime pagine dà una piccola spiegazione: scrivere liste è parte essenziale della vita quotidiana di ognuno, quindi perché non sfruttare al massimo un gesto così semplice per rendere più carica di significato ogni settimana dell’anno, anche quelle che sembrano meno importanti. Le liste, divise per stagioni, partono ovviamente con i buoni propositi per l’anno nuovo, ma poi spaziano su diversi argomenti, permettendo a chi prende in mano la penna di fare qualche riflessione in più sulla propria vita, andando a scavare un po’ di più nei pensieri e magari affrontando argomenti che fanno paura. A volte semplicemente scrivere quello che non va è già un ottimo punto di partenza per risolvere il problema: ci si sente più leggeri, si cerca di guardare la situazione in modo oggettivo.

Il bello di questo libro, secondo me, è proprio la possibilità di prenderlo come una sfida personale e di poterlo personalizzare il più possibile: non ci sono regole su come utilizzarlo, si può partire dall’inizio, dalla fine o dalla metà e non c’è limite alla lunghezza degli elenchi che si compilano. Forse l’unica pecca è che libri del genere sono un po’ difficili da reperire in Italia (infatti io l’ho acquistato a New York): su Pinterest, però, si trovano decine di sfide simili. Pronti a trovare quella migliore per voi?

Rogue One ovvero la meraviglia che non ti aspetti: la mia recensione

Credevo che questo film non sarebbe stato niente di particolarmente speciale, che mi avrebbe un po’ delusa come l’episodio VII, tuttavia, da fan di Star Wars, non potevo mancare l’appuntamento al cinema. E invece Rogue One mi è davvero piaciuto, non ricordo l’ultima volta che sono uscita dalla sala così entusiasta!

La pellicola, diretta da Gareth Edwards, è ambientata poco prima degli eventi narrati nell’episodio IV, e racconta le vicende di un gruppo di ribelli che rubano i piani della Morte Nera. Jyn Erso, la protagonista, è la figlia di un ex scienziato al servizio dell’Impero, che ha abbandonato la causa e per questo è costantemente piantonato dagli ufficiali, che dopo diversi tentativi riescono a rapirlo e riportarlo al loro servizio. Jyn cresce accudita dal ribelle estremista Saw Gerrera, e viene in contatto con Cassian Andor, pilota dell’alleanza ribelle. Dopo la diffidenza iniziale, dovuta anche ai traumi del suo passato, tra i due nasce un’intesa che porta la ragazza a rendersi conto del ruolo di suo padre nella costruzione della nuova arma dell’Impero, e che è assolutamente necessario cercare di combattere. Parte così una spedizione diretta sul pianeta archivio dell’Impero, che non avrà risvolti esattamente positivi.

Se dovessi pensare a una parola per descrivere Rogue One, sarebbe sorprendente: la storia, benché ricalchi quelle precedenti, con un protagonista che vive in miseria e poi diventa parte di un disegno più grande di lui/lei, non è scontata. Ho apprezzato davvero le numerose ‘incursioni’ nella vita imperiale, che mostrano al pubblico il rovescio della medaglia del fare parte della potenza che governa la galassia: il padre di Jyn non è affatto contento e convinto di ciò che sta facendo, e infatti tenta l’impossibile per mandare a monte i piani dell’imperatore. Jyn stessa all’inizio non è minimamente schierata con la causa ribelle, e ci vuole, ovviamente, un’esperienza molto intensa per farle cambiare idea.

Da vera fan della saga ho amato tutti i riferimenti agli altri film: il tema musicale riprende quello della storia d’amore tra Anakin e Padme (anche se questa volta non è stato John Williams a scrivere la colonna sonora, ma Michael Giacchino), ritroviamo il governatore Tarkin, abilmente inserito poiché l’attore che lo interpreta è scomparso ed è quindi stato necessario lavorare in digitale per ricostruire il suo viso. Il risultato è un po’ artificioso, ma ben riuscito. L’apparizione di Darth Fener è davvero epocale, con il suo solito tema musicale: mi ha scioccato solo il fatto che sia chiamato Darth Vader, pronunciato in modo orribile, e che il doppiatore non sia lo stesso dei primi film (nonostante nella versione originale sia ancora James Earl Jones a prestargli la voce).

Ma la vera chicca, il particolare che mi ha fatta saltare sulla poltroncina e dimenticare che Jyn e Cassian non si siano dati neanche un bacetto, è stato il finale del film: anche se finisce in tragedia, non ho mai visto una conclusione così emozionante. Rogue One finisce esattamente dove comincia l’episodio IV, quindi vediamo i passeggeri della nave ribelle consegnare alla principessa Leia il dischetto contenente i piani della Morte Nera.. e noi già sappiamo che quel dischetto sarà inserito in R2-D2, che insieme a D3BO finirà proprio tra le mani di Luke Skywalker…