22.11.63, va in scena l’America dei sogni

Non piangevo per un libro dal 2003, anno di uscita di Harry Potter e l’Ordine della Fenice, da quando Sirius è morto e ha lasciato Harry da solo, in un mondo che stava diventando sempre più nero e freddo. Ci sono voluti quattordici anni e la penna di Stephen King per farmi versare di nuovo lacrime per un personaggio di carta: i fazzoletti degli ultimi due giorni sono tutti per Jake Epping, protagonista di 22.11.63.

Jake Epping è un insegnante di letteratura inglese di Lisbon Falls, Maine, che nel 2011 vive una vita insoddisfacente, culminata con il divorzio dalla moglie alcolista, che lo ha lasciato per un altro uomo. Il suo amico Al Templeton, proprietario di una tavola calda locale, gli confida di avere scoperto all’interno dello stabile un misterioso portale che conduce all’ottobre 1958: non importa quanto tempo si passa nel passato, perché nel presente passeranno sempre solo due minuti. Al confida le sue intenzioni all’amico: vuole impedire l’assassinio di Kennedy, ma deve lasciare tutti gli appunti riguardanti le sue ricerche a Jake, che dovrà condurre il gravoso compito per conto proprio, dato che Al è in punto di morte. Comincia così per il professore, che nel frattempo cambia nome in George Amberson, una nuova vita nel passato, fatta di momenti di rivalsa personale e di soddisfazioni, come l’incontro con Sadie, donna con cui intratterrà una profonda relazione, di nuove amicizie e nuove esperienze. Ma come andrà a finire il suo appuntamento con l’omicidio che ha sconvolto una famiglia, gli Stati Uniti e il mondo intero?

Ho scoperto questo romanzo per caso, poiché lo scorso anno Hulu ha prodotto un omonimo adattamento televisivo, e per la prima volta mi sono quindi avvicinata a Stephen King, di cui conoscevo la fama ma che avevo sempre snobbato in quanto l’horror non è tra i miei generi preferiti. A lui va ogni merito per avermi fatto di nuovo innamorare: Jake Epping è proprio il genere di persona che piace a me. Un tipo a cui la vita ha fatto andare storti i piani e che cerca di cavarsela meglio che può, ma che in fondo al cuore ha ancora qualche speranza; qualcuno che all’apparenza sembra un bravo ragazzo, e lo è, ma che come tutti ha i suoi difetti e i suoi punti deboli. Un uomo che si prende cura della propria donna e che le insegna come cavarsela nel mondo, condividendo con lei le emozioni più belle della vita, anche se per Jake stesso si tratta di esperienze già vissute. Un uomo che purtroppo a volte deve anteporre doveri più gravosi e importanti ai desideri del proprio cuore. 22.11.63 è il romanzo perfetto per chi come me è eccessivamente nostalgico: Jake si trova più a suo agio nel passato che nel presente, nella dolce America di inizio anni Sessanta, in un minuscolo paese dove finalmente riesce ad assaporare la gentilezza degli statunitensi. Un luogo dove con pochi dollari si consuma un delizioso pasto al diner cittadino, dove é possibile essere ballerini talentuosi e dove il senso del pudore é ancora esageratamente alto. Quel luogo dove paradossalmente riesce a ritrovare se stesso, ma dove deve anche fare i conti con un passato che non vuole essere cambiato.

Casa è guardare la luna che sorge sul deserto e avere qualcuno da chiamare alla finestra, a guardarla insieme con te. Casa è dove puoi ballare con qualcuno, e la danza è vita

Nonostante la sua mole, ho terminato la lettura in una decina di giorni: la penna di King mi ha catturato, sono entrata anche io in un mondo parallelo, desiderosa di conoscere gli sviluppi nella missione del protagonista, assaporando con lui un dolce fatto in casa, ballando con Jake al ritmo della musica anni Cinquanta, sentendo tutto il suo dolore per le continue perdite nella sua vita, piangendo disperata (ecco, questo è probabilmente l’unico tratto che non condividiamo) durante le emozionanti pagine finali. Non posso svelarvi la conclusione, ma sono certa che se intraprenderete questo percorso la reazione sarà la medesima. La vera perla del romanzo per me è l’immaginario dialogo del protagonista con Kennedy: sono certa che se il presidente avesse potuto parlare lo avrebbe fatto proprio come in questo libro, con la sua sincera gentilezza. Sono anche certa che avrebbe potuto avvertire il dolore del protagonista, come l’ho sentito io sulla mia pelle.

C’era una volta Michele Mari

Non penso che ci possa essere un solo scrittore capace di parlare di gabinetti, argomenti triviali e cacca: Michele Mari non solo ne è perfettamente in grado, ma presenta la questione al lettore come se fosse un’opera d’arte, un’analisi linguistica del termine che rende questo argomento di bassissimo livello un esercizio di stile perfettamente riuscito e non banale. Il sogno del fecaloma, insieme ad altri racconti, compone la raccolta Fantasmagonia, un libro che ho aspettato tanto e che ho ricevuto con grande piacere.

Il volume è uscito nel 2012, ma io sono riuscita ad accaparrarmelo (e leggerlo) solo recentemente: per me si tratta del primo approccio con Mari, che è anche professore di letteratura italiana nella mia università, a Milano. Si dice sia un tipo scontroso ma brillante, che tiene lezioni di un certo livello: impossibile non riconoscere queste caratteristiche anche nella sua scrittura. La prosa è perfetta: quello che ho apprezzato maggiormente è stato senza dubbio il lessico, sempre preciso, e soprattutto la capacità di scrivere in un italiano simil-volgare, calandosi nei panni di Cecco Angiolieri.

Altra caratteristica che ho amato è la sua fantasia nel svelare al lettore ipotetici retroscena della vita di personaggi storici famosi, come Emilio Salgari o i fratelli Grimm. Da un professore di letteratura, esperto dantista, magari non ci si aspetta una simile creatività, invece Michele Mari riesce ad abbattere ogni pregiudizio e a farci apprezzare nuovamente la magia dimenticata del racconto breve, dalle tinte fantastiche e anche orrorifiche.

Questo ritorno alla tradizione mi ha fatto venire voglia di rileggere alcuni volumi presenti nella libreria di famiglia: si tratta delle più famose raccolte di racconti, da Perrault a Andersen, dalle leggende irlandesi alle fiabe dei fratelli Grimm. Un rapido confronto basta per notare la somiglianza tra il lavoro contemporaneo di Mari e la tradizione fantastica europea, segno che dietro l’apparente semplicità del genere fiabesco si cela un’approfondita ricerca nella prosa più antica e nelle tradizioni dei popoli europei. Chi lo ha detto che le fiabe sono cosa per bambini?

Kendra Elliott e la sua suspense “Gelida”

Se mi seguite anche sulla mia pagina Facebook, saprete che qualche tempo fa ho pubblicato la foto del mio Reading Journal, un taccuino con pagine create ad hoc per annotare le caratteristiche di ogni libro letto e dare loro un voto. Gelida è stato il primo libro del 2017 ad ottenere il mio punteggio pieno, e non pensavo che questo romanzo potesse piacermi così tanto!

Brynn Nealey è un’infermiera forense che fa parte di una squadra di salvataggio e primo soccorso dell’Oregon; quando un piccolo aereo precipita sulla Catena delle Cascate a causa di una violenta nevicata, è compito della squadra cercare superstiti. All’affiatato gruppo si unisce anche Alex Kinton, un Marshal che è invitato a partecipare alla spedizione poiché sull’aereo si trovava un suo collega, una guardia che trasportava Darrin Besand, pericoloso serial killer che sta affrontando i diversi processi a suo carico. Durante la spedizione la squadra inizia a conoscersi, e dopo la diffidenza iniziale i due protagonisti entrano in confidenza: mentre si svelano i loro passati tenebrosi, una terribile scoperta fa salire ancora di più la tensione. Il serial killer, infatti, non giace morto tra i rottami dell’aereo, ma è vivo e gira liberamente tra i boschi.

Questo romanzo è il secondo volume della serie Bone Secrets: non ho letto il primo, Nascosta, ma non ha importanza perché ciascun romanzo, anche se scritto dalla stessa autrice, è autoconclusivo. Gelida però mi è piaciuto davvero molto, e provvederò a comprare anche il primo libro! Finora, a parte i romanzi di Guillaume Musso, avevo letto veramente poco del genere thriller/suspense, e non pensavo che un libro simile potesse tenermi incollata alle pagine. Lo vedevo più come un romanzetto senza pretese (e forse lo è), con più romanticismo che un mistero da svelare.

Invece la Elliott si è rivelata una penna molto interessante, certo non è al livello di Musso: il suo stile è piuttosto semplice, ma ho trovato molto emozionanti i colpi di scena e i capitoli chiusi senza avere il quadro completo della situazione. Le descrizioni sono ottime ma non pesanti, sembra davvero di trovarsi in mezzo a un bosco pieno di neve e con temperature bassissime: uno scenario tutt’altro che idilliaco, visto che tra quei boschi si aggira un pazzo che ha già ucciso più volte. Il personaggio del serial killer a mio parere è quello caratterizzato nel modo migliore: ho apprezzato davvero molto la sua caratterizzazione psicologica. La vicenda è narrata da diversi punti di vista, in modo che il lettore possa avere il quadro completo della situazione, senza però togliergli il gusto di ragionare su quanto non è stato ancora svelato. E poi, ciliegina sulla torta, la storia d’amore intensa e dalla crescita rapida tra Alex e Brynn. Datemi qualche occhio a cuore e state certi che un libro mi piacerà.

Sophie Kinsella, perché sì!

Ho da poco terminato Begli amici!, uno degli ultimi libri di Sophie Kinsella usciti sotto il suo vero nome, Madeleine Wickham. Al posto della solita recensione ho pensato di dedicarle un intero post, spiegandovi perché questa brillante donna inglese è la mia scrittrice preferita. Anche se i suoi romanzi potrebbero essere tranquillamente inseriti nella sezione rosa, e io non sia proprio una loro accanita lettrice.

Credits www.sophiekinsella.co.uk

Ho tutti i suoi libri (ok, non proprio tutti, mi manca solo l’ultimo, La mia vita non proprio perfetta. Qualcuno provveda!), e ovviamente l’ho conosciuta con I love shopping: tutta questa serie, e alcuni altri romanzi autoconclusivi, tra cui Sai tenere un segreto, sono scritti proprio come Sophie Kinsella, che è il suo pseudonimo. Come l’autrice stessa ha spiegato, il motivo per cui distingue i suoi lavori è semplicemente un motivo di stile: se avete letto una delle avventure di Becky Bloomwood, saprete come ogni libro inizi con la stessa frase, “Niente panico”, come siano tutti caratterizzati da uno stile fresco e brillante. In ognuno di questi libri, dietro le vicende esileranti e la storia d’amore, c’è sempre qualcosa in più. Un significato più profondo, una riflessione tenera ma malinconica sulla vita e su come sia importante essere se stessi e seguire il proprio cuore.

Madeleine Wickham, il suo vero nome, caratterizza invece un’altra serie di romanzi, scritti tutti tra la metà degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, che sono stati notati dal pubblico solo dopo l’uscita della saga sulla spendacciona Becky, che tanto le ha portato fortuna. Qui troviamo una scrittura molto più matura e realistica, con descrizioni particolareggiate della campagna inglese e dei tanti, piccoli faide e stereotipi che la caratterizzano. Un po’ questi libri mi ricordano Il seggio vacante, romanzo di J. K. Rowling uscito dopo la chiusura del capitolo Harry Potter. Un aspetto che secondo me le rende narrazioni più serie è anche il fatto che siano sempre coinvolti anche bambini, che nella loro ingenuità e curiosità riescono sempre a combinare qualcosa e a influenzare la vita degli adulti che li circondano.

Se dovessi consigliarvi dei titoli, i miei preferiti restano (per ora) firmati con lo pseudonimo: La regina della casa racconta la storia di un giovane avvocato stakanovista, che fa di tutto per ottenere il posto di socio nello studio legale in cui lavora. A causa di un errore, però, teme che la sua carriera sia stroncata e così fugge in campagna, dove finisce per diventare la domestica di una ricca famiglia. Ovviamente senza avere la minima nozione di cura della casa o di cucina! Un altro titolo che adoro è Ho il tuo numero, davvero romantico: protagonista una promessa sposa che perde all’improvviso il suo prezioso anello di fidanzamento e contemporaneamente è derubata del suo cellulare. Le cose si complicano quando ne trova uno nella spazzatura e inizia a rispondere ai messaggi di un importante uomo d’affari, che si rivolge a lei come se fosse la sua segretaria…

Storia di una ladra di libri, la guerra lontano dalla guerra

Ci è voluto un po’ di coraggio per riuscire a leggere questo libro, e non perché sia ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale; piuttosto perché stazionava nella mia libreria dal novembre 2014, un regalo di compleanno che temevo avrebbe portato con sé ricordi che preferisco tenere inscatolati. Invece, Storia di una ladra di libri non mi ha assolutamente fatto del male, anzi, per la prima volta dopo tanto tempo un libro è riuscito a farmi emozionare davvero, a commuovermi.

Liesel Meminger parte con la madre e il fratellino, diretta verso un sobborgo di Monaco di Baviera: suo padre è stato incarcerato, reo di aderire al comunismo, e la madre ha scelto per i suoi figli una vita non certo agiata ma comunque più sicura, lasciandoli in adozione presso una famiglia tedesca. Il fratello, però, si ammala durante il viaggio e muore: Liesel si ritrova così in un mondo a lei completamente sconosciuto, spaventata e priva dei suoi affetti. Nella nuova famiglia saprà però trovare l’amore di Papà, che da subito l’accudisce, e anche quello di Mamma, nonostante i suoi modi burberi. Impara perfino a leggere, riuscendo a rubare un libro. La vita famigliare cambia totalmente quando suo padre decide di accogliere e nascondere un ebreo nella loro cantina: la guerra è iniziata, e a Molching niente sarà più come prima.

Il titolo di questo romanzo è meraviglioso: io non avrei mai immaginato un personaggio talmente attratto dai libri (e inizialmente in modo inspiegabile, dato che la protagonista non sa leggere e ruba un manuale per becchini) da iniziare a salvarne quanti è in suo potere, dal rileggerli in continuazione fino a imparare una lingua sconosciuta, dal far diventare un oggetto il simbolo della propria esistenza. Quando dico che questo libro mi ha emozionato non intendo dire che ho pianto leggendo il triste epilogo: no, mi ha commosso, mi ha toccato nel profondo, perché ogni particolare è al tempo stesso delicato e pungente, portatore di una traccia di riflessione. La vicenda inizia nel 1942, la guerra è già iniziata da tre anni, eppure, nonostante si soffra la fame, nonostante aleggi lo spettro di quanto sta accadendo a chi non è tedesco, il conflitto non riesce a raggiungere il lettore.

Non ho capito bene come l’autore ci sia riuscito, ma attraverso il racconto delle giornate di Liesel, della sua profonda amicizia con Rudy, il coetaneo vicino di casa, del suo rapporto con la famiglia, i vicini, con Max, l’ebreo nascosto, la guerra c’è nella sua brutalità, ma sembra quasi appiattita dalla forza d’animo e dalla positività della ragazzina, che lotta strenuamente, quasi senza rendersene conto, inondando chiunque le stia vicino con la sua inconsapevole speranza, la sua luce. Anche il narratore, la Morte, ne è affascinato.